









Ho incontrato Chiara Pergola per caso da Serendippo la scorsa primavera, mentre si accordava con Etta Polico per la sua mostra. L’idea di affidarmi questa presentazione è nata in quel momento, nello spontaneo presentarsi di una perfetta triangolazione di alleanze, e lì si è scatenata anche una riflessione che ora, nonostante lo scarto netto che le opere esposte apparentemente imporrebbero, non voglio tralasciare.
Io e Chiara non ci vediamo spesso, ma quando decidiamo di incontrarci parliamo per ore. Lo abbiamo già fatto abbastanza da poter dare per scontate alcune cose, ma non tanto da rendere evitabile un confronto fitto di interrogativi quando le chiedo di pensare alle sue opere insieme a lei.
Questo scritto sarebbe però diverso senza l’antefatto della scorsa primavera, cioè l’avere ascoltato Chiara mentre si stava chiedendo se è veramente un’artista. Il dubbio, va sottolineato, non era rivolto al suo lavoro artistico, ma alle sue modalità di insegnamento.
Personalmente non saprei dire se l’essere artista sia una condizione ontologica permanente e onnipervasiva, o quantomeno una vocazione con caratteri genetici, ma questo genere di interrogativi rientra tra i tanti che mi sono rassegnata a lasciare senza risposta.
Quello su cui invece mi sembra abbastanza sensato riflettere è il modo in cui si può esprimere un giudizio di merito sui diversi atteggiamenti pedagogici degli artisti “strutturati” nei confronti degli artisti “in formazione”. Tema tutt’altro che estraneo a Chiara, sia per le sue esperienze di insegnamento passate e attuali, sia per la sua partecipazione alla redazione della rivista fuoriregistro. Una questione di contenuti, certamente, ma anche di “stile”. E lo stile generale di Chiara è quello che, curiosamente, coincide con il suo stesso nome.
Il suo lavoro rende infatti limpido e tracciabile un processo generativo che, nell’estrapolazione e associazione di elementi riconoscibili nella sterminata segmentazione dei saperi formalizzati, trasforma l’intuizione e il pensiero in enunciati visivi di cristallina evidenza: un procedimento apparentemente semplice, ma straordinariamente efficace, per produrre significati attraversando la complessità del mondo e le infinite interconnessioni tra realtà e astrazione.
Chiara ha studiato e sa molte cose di scienze, matematica, studi culturali, femminismi, arte, lingue parlate e scritte, ma il suo interesse più autentico è rivolto a una dimensione che tutti i saperi astraenti eludono e aggirano, lasciando inespressa la facoltà di “sentire” e di conoscere con il corpo.
Da qui parte un lavoro di costante interrogazione e destrutturazione dei testi e dei modelli in cui il logos si incarna e si diffonde. Lavoro condotto con il rigore di un’anatomista, e questo può avere qualche riscontro con il fatto che, prima di diplomarsi all’Accademia, Chiara ha effettivamente conseguito una laurea in biologia, indirizzo fisiopatologico, e ora insegna, non a caso, anatomia artistica all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Credo che anche per questo mi appaia abbastanza naturale che il suo modo di procedere contempli la necessità di capire con chiarezza per poter veramente spiegare: ogni sua opera presuppone studi metodici, analisi obiettive, ragionamenti logici, disciplina tecnica. Strumenti di conoscenza comunemente non associati alla spontanea capacità immaginativa che la consuetudine attribuisce all’artista e che si potrebbe definire come la facoltà di agguantare in via provvisoria quelle eccedenze di senso che il linguaggio non riesce mai ad afferrare saldamente, ma che pure conosciamo come sensazione, emozione o, nella sua sublimazione comunicabile, come poesia. Lì, in effetti, sta ciò che definiamo “arte”. Cioè una modalità specifica dello scandagliare e del pronunciare le verità del nostro mondo dentro e oltre le contingenze in cui sempre si aggrovigliano, per noi umani, natura e cultura. L’esplorazione di questi nessi può avvenire in molti modi “creativi”, naturalmente, ma non penso che Chiara possa rinunciare al suo piglio da scienziata. Le sue opere sono dispositivi in cui gli elementi vengono scissi e ricomposti con sistematicità, fino a trovare una coincidenza precisa tra formula e dimostrazione, ricalcando i procedimenti della chimica e della fisica nella complessità delle relazioni umane.
“Ricalcare” mi sembra un verbo di particolare pertinenza per il lavoro di Chiara, qualcosa di non confinabile alla mimesis o alla clonazione: il suo è un ripercorrere con altri mezzi i tanti tragitti esistenti e possibili nelle stratificazioni dei saperi che abbiamo sulla realtà, fisica o storica che sia. Ogni sapere produce i suoi codici e i suoi simboli, e la scienza forse più degli altri, con il vantaggio di poter comunicare in questo modo l’inintelligibile e l’incommensurabile: l’infinito, l’energia, le forze e le loro interazioni. La scienza traduce concetti complessi in elementi maneggiabili e componibili: esiste qualcosa di più vicino al linguaggio poetico? Chiara annovera questi simboli, insieme a codici, modelli e figure di ogni specie, tra i reagenti del suo laboratorio fantastico e così apre varchi che intercettano ciò che eccede ogni linguaggio senza lasciarvisi comprimere.
Chiara è soprattutto una formidabile indagatrice della polivalenza, una dispensatrice di metafore illuminanti, una generosa giocatrice.
È con la serie Forma mentis che Chiara dichiara inequivocabilmente le potenzialità di rivolta mascherate nei suoi trucchi visivi e nell’ironia, nel suo evocare il carcere e la violenza come condizioni strutturali dell’esistenza nel mondo capitalistico e patriarcale.
Cose che si ritrovano tutte, variamente declinate e graduate, nella replicabilità su scala domestica e controllabile di un dispositivo complesso come il museo, impressa nel cassettone del Musèe de l’OHM; o nel gioco linguistico/enigmistico di Proposta di dialogo; o in certi détournement che ricordo di aver visto su un vecchio numero di “Via Dogana”; o negli incastri oggettuali e semantici dei suoi libri d’artista; o nella storia a fumetti di Suppermanager, servita su piatti di maiolica “per cene aziendali” realizzati al Museo Zauli; o perfino nei doppi sensi tautologici dei suoi Quadretti.
Quello che mi rassicura delle opere di Chiara è il fatto di poter scrivere dei suoi lavori senza dover per forza ricorrere a equivalenti poetici per restare loro fedeli. Si può parlare con estrema semplicità anche delle due installazioni che ha scelto di presentare nello spazio di Serendippo in vicolo Facchini 5C. Un luogo sovraccarico di oggetti ereditati dalla sua storia di laboratorio di falegnameria, da qualche anno vissuto e attraversato in mille modi grazie all’impegno e alla passione di Etta Polico, anche lei, come Chiara, avvezza a dimorare simultaneamente nei mondi della scienza e dell’arte. Un luogo in cui le opere si propongono come inviti a una sosta rispettosa eppure priva di soggezione, che in questa mostra ci induce a rifletterci – anche letteralmente – nell’avvincente incrocio tra astrazione e realtà fenomenica.
Nella prima sala è allestita un’opera della serie Parжour, avviata nel 2013 durante una residenza a Viafarini e che Chiara stessa ha descritto, pedagogicamente, con la sua solita illuminante precisione:
Parжour è un esercizio di indagine dello spazio urbano realizzato attraverso l’uso critico dei più comuni dispositivi mobili e dei sistemi di georeferenziazione ad essi collegati. Aforismi tratti dal Tao Te Ching sono meditati, tradotti e riscritti fotografando e localizzando frammenti delle scritte ed insegne che si incontrano per strada. La ricerca delle sillabe con cui riscrivere il Tao costituisce una forma di ginnastica mentale, che permette di inserire all’interno dei percorsi forzati della vita quotidiana uno sguardo interstiziale che ne ridefinisce codici, segnali, topografia. In questo senso Parжour può essere considerato una sfida agonistica lanciata alle strutture in cui ci muoviamo, una tattica diversiva rispetto alle strategie di pianificazione nei nostri percorsi urbani ed esistenziali. Un gesto atletico attraverso cui riconquistare spazio, praticare un vuoto all’interno della fitta agenda degli impegni.
Le frasi scritte con questa modalità sono riprodotte in video, fotografia e installazioni multimediali secondo una logica site-specific che permette di rivisitare i luoghi da un altro punto di vista.
Parжour è un tentativo di ritrovare un percorso di senso nella parcellizzazione del pensiero, un modo per resistere all’inondazione ottundente e sviante della proliferazione verbale e visuale, una pratica situazionista di esplorazione psico-geografica e di ricostituzione della coscienza. I segmenti dei tracciati percorsi formano piccole costellazioni di itinerari resi coerenti da una prescrizione meditativa, così come le sillabe, cristallizzate nel loro essere separate e distinte nelle fotografie, diventano flusso continuo nel video: l’installazione finale è, insieme, effetto e anatomia del suo stesso processo generativo. La visione frontale e fissa delle sillabe fotografate diverge da quella obliqua e in movimento del video, che scorre ingrandendo (o risucchiando?) le lettere, via via, lungo un cono luminoso che evoca un altoparlante, ricalco (in direzione contraria?) delle onde sonore provocate da un’emissione vocale: uno sciamante e prolungato urlo visivo che si sprigiona e si spegne nella luce.
Nella seconda sala tutto invece appare in movimento: lo spettro visibile emanato da un proiettore si alterna alla luce naturale, riflettendosi nelle esili barriere costituite da specchi strettissimi che pendono dal soffitto. Di lunghezze diverse, e appesi ad altezze diverse, gli specchi sono identici nel loro funzionamento intrinseco, ma si differenziano per dimensione, posizione e incorniciatura e si distinguono in ciò che possono riflettere e come.
Se si prova a guardarsi riflessi in uno di loro si è frustrati da una visione parziale e caotica, una scomposizione nella quale non è possibile riconoscersi. Solo guardando oltre lo specchio si può recuperare la stabilità della visione, ma non sottrarsi allo sdoppiamento. In questo ambiente frammentato e dinamico possiamo ritrovare un equilibrio solo guardando oltre noi stessi, consapevoli di essere perennemente immersi in un intreccio mobile e inestricabile di soggettività molteplici, di entità e fenomeni del mondo naturale e di uno sterminato complesso di culture e artefatti.
L’immagine disgregata rimandata dagli specchi “sottili” è per Chiara una metafora dell’estremo individualismo verso cui siamo stati sospinti, e a cui fa da preludio la frase ricomposta nella sala precedente.
Immediato, per me, riandare alle note sul mito di Narciso di Anna Valeria Borsari, non perché mi preoccupi l’idea di dover rintracciare qualche ascendente esemplare – ce ne sono sicuramente molti altre e altri – ma perché è un’artista che sia Chiara che io abbiamo conosciuto e stimato. Per Borsari l’annullamento a cui Narciso è condotto dal desiderio di congiungersi alla propria immagine non è amore di sé, ma dell’Altro intravisto nel rispecchiamento. Qualcosa che contrasta la paura della frantumazione che per Borsari motiva “due funzioni fondamentali su cui si struttura tutto il nostro ordine sociale e in genere la nostra cultura”: da una parte la rimozione del desiderio di un ritorno alla fusione con la madre, ottenuta con il trasferimento di tale desiderio sull’“avere”, e, dall’altra, la riproduzione della scissione attraverso classificazioni con cui tentiamo di governare il caos che mina la nostra integrità. “Questo tipo di situazione che la nostra cultura avverte come normale – conclude Borsari – non è però l’unica alternativa all’angoscia psicotica di un io frantumato, fragile, quasi inesistente, che contemporaneamente si perde e ci cerca in tanti punti di vista, che ha bisogno di testimonianze esterne della propria presenza, quali al limite le stesse tracce che può lasciare il suo corpo. Una volta che in uno specchio ci si è visti soli, ma interi, la paura di perdere questa interezza può anche tacere, non obbligandoci a rimuovere il desiderio originario di unione. Possiamo così tentare di rifonderci nell’Altro, come avviene nei Miti, che raccontano le cose proibite che non si sono mai fatte. Narciso si avvicina al suo Altro per conoscerlo o per conoscersi, ma può farlo solo penetrandosi e sparendo. E il suo sparire nell’Altro non è un fatto luttuoso, come tutta la nostra tradizione culturale ci ha insegnato a pensare, ma un fatto felice.”[1]
A distanza di quasi cinquant’anni da queste riflessioni, nutrite del pensiero di Lacan, e dopo le tante che da allora la filosofia – soprattutto femminista – vi ha aggiunto, il procedimento di Chiara appare quasi inverso, escludendo a priori la possibilità stessa di rispecchiarci come interi o di vedere l’Altro nella nostra immagine riflessa. Le sue opere, come nuovi attrezzi che si affiancano a quelli già sedimentati in vicolo Facchini 5C, ci addestrano a stare nella complessità praticando esercizi di salutare disinganno.
Uliana Zanetti
Bologna, luglio 2025
[1] Anna Valeria Borsari, testo pubblicato in “G7 Studio” in occasione della personale alla Galleria G7, Bologna 1977



